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Breve storia della distillazione e delle acquaviti

«Il vino la più gradevole delle bevande, sia che si debba a Noè il quale piantò la vigna, sia che si debba a Bacco che per primo spremette il sugo del grappolo, data dall’infanzia del mondo; e la birra che viene attribuita a Osiride, risale ai tempi al di là dei quali non v’è nulla di certo.

La distillazione: il principio

Tutti i popoli antichi, persiani, babilonesi, egizi, greci e romani, utilizzavano la distillazione per estrarre profumi ed essenze da fiori, frutti e piante. Sembra, inoltre, che i persiani portarono la distillazione nell’antica Cina, infatti, uno dei vocaboli cinesi usati per l’acquavite si rifà alla parola araba “araq”. L’acquavite, ottenuta probabilmente da un vino di miglio o dal riso, doveva essere conosciuta in Cina, già intorno al IX secolo, poiché, in alcune poesie dell’età Tang, si parla del Shao Chiu o vino bruciato. In ogni modo non si ha certezza della distillazione in Cina se non verso i secoli XII e XIII. Non sembra comunque che le civiltà antiche del Medio Oriente, come la cultura greca e romana, abbiano applicato la distillazione al vino o al sidro, limitandola alla produzione di acque profumate da fiori e piante.

Attraverso gli arabi, che utilizzavano largamente la pratica della distillazione per ottenere profumi ed essenze, e soprattutto per ricavare l’acqua di rosa, l’alambicco e la tecnica di condensare profumi e acque aromatiche mediante il calore, arrivarono, tra la fine del IX secolo e l’anno Mille, al più importante centro di ricerca dell’epoca, la scuola medica salernitana, da dove si diffusero ai farmacisti e agli alchimisti di tutto l’occidente.

La tecnica della distillazione, seppur ancora imprecisa e mal compresa, diventò in circa due secoli un importante strumento, utilizzato abitualmente dai dottori del tempo per la ricerca medica e scientifica. Così, verso la fine del XII secolo, gli alchimisti cominciarono ad utilizzarla con una certa continuità, descrivendone in modo sempre più preciso il processo e il frutto, l’acquavite.

L’alchimia

L'alchimista Sendivogius - Olio Su Tavola Di Jan Matejko
L’alchimista Sendivogius – olio su tavola di Jan Matejko

Si può affermare che la scienza e l’arte della distillazione nascono come discipline dell’alchimia. L’alchimia è la pratica medievale, a volte empirica, cui l’iconografia tradizionale associa quei personaggi stravaganti, con cappello a cono, mantello nero e formule magiche che, nella penombra di una grotta, o in cima alla torre più alta del castello, si danno un gran daffare attorno a un pentolone fumante nella vana ricerca dell’elisir di lunga vita o per trasformare il piombo in oro.

Gli alchimisti erano persone alle quali si attribuivano poteri superiori, in grado di ascendere alle origini del mondo e della vita, sia attraverso il pensiero sia con l’azione. Lo scopo della loro vita era favorire una rinascita dell’uomo e della natura, togliendoli da quella condizione negativa in cui, per qualche colpa originaria, erano caduti.

L’alchimia fu la filosofia cui s’ispirarono i primi tentativi dell’uomo di studiare la materia e le sue trasformazioni, di indagare e capire la struttura della natura, ed è da questa scienza che si è formata la cognizione dei fenomeni chimici. Uno dei metodi d’indagine utilizzati dall’alchimia, per costringere la natura a rivelare i suoi segreti e capire la struttura della materia, fu la distillazione.

Gli scopi primari dell’arte alchemica erano la trasmutazione dei metalli in oro, e il tentativo di creare una medicina universale, in grado di guarire tutti i mali e portare l’uomo alla sua perfezione originale. A questi obiettivi pratici, si univa la ricerca spirituale dell’integrità e delle interrelazioni tra uomo, Dio e cosmo, che avrebbe condotto ad un’unità totale.

I sette metalli erano in rapporto con i sette astri e questi con le sette viscere dell’uomo. I metalli erano in relazione con le qualità morali dell’uomo. Il piombo, materiale misero, corrispondeva all’imperfezione interiore dell’uomo. L’oro, il metallo più prezioso e simbolo di perfezione, raffigurava lo stato di massima compiutezza interiore, dovuto alla rinascita e alla rigenerazione spirituale.

Nella concezione alchemica i metalli erano delle sostanze in un processo naturale d’evoluzione e perfezionamento da uno stato impuro (piombo) alla purezza (oro). Questa evoluzione naturale dei metalli era considerata simile a quella dello sviluppo degli organismi viventi e quindi dell’uomo. In questo modo il feto aveva in se le potenzialità dell’uomo adulto, era considerato intrinseco il passaggio naturale dai metalli imperfetti all’oro, la forma finale cui questi tendevano.

Le proprietà diverse dei metalli rappresentavano stadi dissimili d’imperfezione nella loro evoluzione, mancanze che potevano essere eliminate artificialmente per portarli allo stato finale di perfezione, l’oro.

Lo scopo dell’alchimista era realizzare questa perfezione, o Grande Opera o Magistero o Gran Magistero, in tempi brevi, preparando una sostanza, la pietra filosofale, o elisir, che per via della sua perfezione, ben superiore a quella dell’oro, era in grado di aiutare la trasmutazione dei metalli vili verso la loro forma finale.

Gli alchimisti, nei tentativi di ricavare questa sostanza artificiale, in grado di sveltire l’evoluzione delle cose, sottoponevano elementi di diversa natura alle pratiche della distillazione. Durante queste continue prove e sostituzioni degli elementi da sottoporre a distillazione qualcuno tentò con il vino. Si giunse così alla scoperta dell’acquavite. Non è da escludere che l’acquavite, considerata “acqua perfettissima” fosse tenuta in conto, per l’evoluzione interiore dell’uomo, tanto quanto la pietra filosofale doveva esserlo per i metalli. All’acquavite si attribuirono perciò quei poteri in grado di aiutare l’uomo a raggiungere la perfezione interiore cui naturalmente tendeva.

L’acquavite ricavata da quelle prime distillazioni, ancora molto approssimative, non fu subito utilizzata come bevanda ma, in virtù dei poteri di purezza che le erano attribuiti, era impiegata per scopi medici. L’acquavite non solo era un ottimo disinfettante, ma serviva per rianimare il cuore, curare la colica, l’idropisia, la febbre quartana, preservare dalla peste e lenire il mal di denti.

Gli alchimisti chiamarono il prodotto di queste distillazioni, che conteneva alcol in quantità sufficiente da permettergli di bruciare, “aqua ardens” o “aqua vitae” o ancora “aqua vitis”.

Del fatto che l’acquavite prende fuoco facilmente, se n’accorse a sue spese il re di Navarra, Carlo il Malvagio, il quale, nel 1387, per beneficiare di tutte le virtù di questa panacea, fu avvolto dai suoi medici in lenzuoli impregnati d’acquavite. Una volta cuciti i lenzuoli, un servitore maldestro avvicinò una candela per bruciare uno dei fili. Fu così che re e lenzuolo si dissolsero in una vampata.

Se nei Paesi di cultura vinicola era il vino a essere distillato, nelle regioni nordiche, dove la vite non prospera, si distillavano i cereali. Nel XII secolo in Irlanda e Scozia si iniziò la distillazione dell’acquavite conosciuta come “uisgebeatha“. Nello stesso periodo negli altri Paesi nordici si cominciò a distillare gli antenati delle moderne acquaviti di cereali. La distillazione e l’acquavite di vino raggiunsero la Russia sul finire del XIV secolo. Nel 1386 una delegazione genovese diretta in Lituania, mentre attraversava il principato di Moscovia, fece una dimostrazione della distillazione di “aqua vitae” presso i guaritori di Mosca. Furono sempre dei mercanti genovesi, diretti in Lituania, a donare, nel 1422, “aqua vitae” a Vasilij III l’Oscuro. In questo periodo, nell’Europa Orientale, l’acquavite di vino o di cereali, non era ancora conosciuta, né come bevanda, né come medicina, e non destava molto interesse nemmeno come merce. Pertanto, le varie dimostrazioni della distillazione, fatte dalle delegazioni genovesi della colonia di Caffa, o dai Cavalieri teutonici di Danzica, possono essere considerate un semplice tentativo di far conoscere, ai nobili russi, lituani e polacchi, le conquiste della scienza e della tecnica occidentale.

Fino al 1200, siccome gli strumenti per la distillazione non erano progrediti e il processo di distillazione era ancora una pratica non compresa, l’acquavite o acqua ardens, era ottenuta in quantità molto modeste, e per questo considerata sostanza rara e preziosa. Quest’atteggiamento verso l’alcol restò tale per tutto il Medioevo, e fu legato a due ragioni: la non perfetta conoscenza delle proprietà dell’alcol; la tecnica della distillazione era conosciuta solo dagli alchimisti, e questi non la rivelavano.

I primi scritti

Dal XII secolo gli alchimisti incominciarono a diffondere studi precisi relativi ai principi che regolano la distillazione e agli apparecchi su cui eseguirla. Tra questi il Consilia del medico fiorentino Taddeo Alderotti, vissuto a Bologna nella seconda metà del ‘200, è uno dei primi trattati dove la preparazione dell’alcol è descritta in modo preciso e, probabilmente per la prima volta, si parla del serpentino di condensazione.

Pellicancno
Pellicano

Uno dei primi alchimisti a trattare della distillazione del vino è il filosofo Raimondo Lullo, il quale definì l’acquavite l’ultima consolazione del corpo umano. Il Lullo nato a Maiorca (1235?-1315), nel suo trattato Teatro chimico, descrive i metodi con cui ottenere l’acquavite attraverso un alambicco usato dagli alchimisti del tempo chiamato “pellicano”.

Sulla distillazione del vino tratta più precisamente Arnoldo da Villanova, (1238?-1311) alchimista contemporaneo del Lullo. Nel suo trattato sui vini descrive i metodi per ottenere l’acquavite, gli oli essenziali, le acque spiritose. In questo trattato sono inoltre studiati in modo approfondito gli apparecchi per eseguire la distillazione. Il Villanova non solo diede per primo il nome di “aqua vite” allo spirito del vino, ma trasformò la distillazione, da pratica già conosciuta dagli antichi, ma largamente disattesa, in un atto abituale per gli studi chimici e farmaceutici.

Michele Savonarola (1384-1468) medico padovano, nella sua opera L’arte di preparare l’acquavite, descrive l’acquavite come un efficace rimedio dalle numerose virtù, e spiega che inizialmente l’alcol non era chiamato “aqua vitae” ma “aqua vitis”, dalla forma a spirale del serpentino refrigerante.

Il nome di aqua vitae, con il significato già attribuitogli dal Villanova, fu ripreso dal chimico senese Vannoccio Biringuccio (1480-1539). Egli affermò che il liquido era così chiamato grazie alle numerose virtù che possedeva: «L’acqua di vita … è quella sustantia e quel mezzo che gli alchimisti conducono in tanta suttilità che la chiamano quinta essentia e gli applicano tante virtù e potentie che più a pena operare non ne possono li cieli». Biringuccio, nel suo trattato De la Pirotechnia, descrive l’alambicco e la pratica di distillare l’acquavite.

CONO-1509

Si deve attendere il 1609 per trovare una descrizione chiara, e senza riferimenti all’alchimia, che tratti in modo preciso della distillazione dei vini, dell’apparecchio necessario a ottenerla e su come rettificarla attraverso distillazioni ripetute. Il merito di questo trattato La distillazione, va al napoletano G.B. Della Porta (1535-1615). Con il Della Porta è abbandonato il pensiero medievale, legato all’idea che l’acquavite ricava tutte le sue virtù dal fuoco, «creatura neutra né sostanza né accidente» data da Dio agli uomini perché se ne possano servire. Tale idea conduceva alla costruzione di alambicchi adatti a un contatto prolungato del vino con il calore del fuoco. La concentrazione e condensazione dell’acquavite, in questi alambicchi medievali, in cui mancava il refrigerante, era ottenuta sottoponendo la stessa sostanza a numerosissime e ripetute distillazioni.

Nel medioevo gli alambicchi erano generalmente costruiti in tre parti. La caldaia, di terracotta o metallo, era chiamata bikos e poi, quando le fu data la forma a zucca, cucurbita. La caldaia si prolungava nel condensatore, detto elmo o cappello, attraverso l’elmo l’acquavite giungeva alla parte terminale, chiamata fiala o bocca. Al-anbiq era il nome arabo del condensatore che in latino divenne alembicus, quindi alambicco.

Inizialmente la mancanza del refrigerante obbligava a raffreddare continuamente il cappello mediante l’uso di panni bagnati. In un secondo tempo, per facilitare l’operazione di refrigerazione, si allungò il collettore che collegava la caldaia alla fiala, utilizzando sempre panni bagnati per il suo raffreddamento. Altre modifiche portarono alla costruzione di cappelli molto alti, a forma di cono. In questo modo la grande superficie del cappello permetteva un raffreddamento ad aria. Il cappello fu poi immerso in un bagno d’acqua.

Tutte queste forme di raffreddamento erano in ogni caso ingombranti e poco pratiche. La svolta nella condensazione delle sostanze volatili avvenne con l’introduzione del “canale serpentinum” citato nei Consilia del medico Taddeo Alderotti. Sul principio era la parte terminale dell’alambicco ad attraversare un tino contenente acqua fredda che doveva essere continuamente sostituita. Poi nella prima metà del ‘500, si costruì il refrigerante con il ricambio continuo dell’acqua di raffreddamento.

A questo punto G.B. Della Porta introduce il concetto di rettificazione, utile a una migliore purificazione dell’acquavite. A tale scopo descrive un alambicco, “l’idra”, in cui l’alcol si fraziona su livelli superiori. In questo alambicco, i vapori che salgono, portano spiriti sempre più concentrati, che si raccolgono nei vasi superiori la cui funzione è di condensatori. L’ultimo condensatore raccoglie lo spirito. Così, anche attraverso un’unica cotta, si ricavano delle acquaviti di diversa concentrazione alcolica, dalla più bassa alla più elevata, e con un maggior grado di purezza. In quei tempi la distillazione avveniva soprattutto a fuoco diretto e a bagnomaria. Sistemi meno usati erano il bagno di cenere o di letame e si sperimentò anche la distillazione attraverso il calore solare.

Idra
Idra

Diffusione dell’acquavite

É difficile dire con precisione in quale epoca l’acquavite cominciò a diffondersi come bevanda d’uso comune. Lo storico Fernand Braudel a proposito della diffusione dell’alcol e delle acquaviti dice: «Il Cinquecento, per così dire, lo crea, il Seicento lo spinge avanti, il Settecento lo diffonde».

Il commercio dell’acquavite è accertato in Italia intorno al XIV secolo, le guerre medievali e le pestilenze contribuirono poi alla diffusione dell’acquavite, se non altro, come parziale rimedio delle pene.

Nel 1493 a Norimberga l’acquavite è così diffusa che un medico arriva a dire: «Siccome tutti hanno preso l’abitudine di bere acquavite sarebbe opportuno far presente la quantità che ciascuno può bere secondo le proprie capacità se ci si vuole comportare da gentiluomini».

In Francia, agli inizi del Cinquecento, la produzione dell’acquavite coinvolge diverse corporazioni artigiane: bottai, fabbricanti d’aceto, fabbricanti di limonata. Queste corporazioni erano sempre in lite tra loro perché tutte volevano ottenere il monopolio della produzione dell’acquavite che rappresentava un “business” ragguardevole, tanto che era già una voce fiscale e doganale. I mercanti, consapevoli del grosso affare rappresentato dall’acquavite, volevano che questa fosse consegnata tutta a loro in modo da essere gli unici a poterla vendere.

L’acquavite, nonostante le sue origini mediterranee, si diffuse inizialmente nel Nord Europa. I fautori di questa diffusione commerciale dell’acquavite, furono i marinai olandesi che introdussero la distillazione dei vini e il commercio dei distillati in tutta l’area atlantica dell’Europa.

Furono sicuramente le virtù terapeutiche attribuite all’acquavite a contribuire alla diffusione della bevanda. I medici la consigliavano a qualsiasi età, come rimedio per un’infinità di acciacchi e malattie, e i frati preparavano nei conventi delle soluzioni mediche, a base di acquavite ed erbe, da distribuire ai poveri.

«Meritatamente si può chiamare acqua di vita perché aumenta et conserva tutte le cose che si pongono dentro da lei preservate et non si corrompono, cosi parimenti conserva la vita di coloro che l’usano di bere, togliendo dai loro corpi ogni putredine et custodisce et ripara, notrifisce, difende et prolunga la vita, imperocchè non solamente conferma nel suo vigore, il calor naturale, ma rigenera, vivifica gli spiriti vitali, scalda lo stomaco, conforta il cervello, acuisce l’intelletto, chiarifica la vista et rimara la memoria». É in questo modo che nel 1565 il medico senese Andrea Mattioli descrive le virtù dell’acquavite.

Nel XVI secolo l’uso dell’acquavite divenne una consuetudine tra lanzichenecchi e truppe mercenarie, mentre ai soldati regolari cominciò a essere data solo verso la metà del XVII secolo. L’acquavite era consumata prima del combattimento, o come disinfettante, o per una delle tante virtù che le si attribuivano, e anche qui era consigliata dai medici. Questa distribuzione d’alcol agli eserciti trasformò in breve tempo i soldati in bevitori abituali.

L’aggiunta all’acquavite, di miele e aromi prima, e di zucchero e aromi dopo, portò alla nascita dei liquori. Questi, già largamente consumati a Venezia, e nella Firenze di Lorenzo de Medici, videro la loro affermazione internazionale quando la figlia di Lorenzo de Medici, Caterina, (Firenze 1519-Blois 1589), sposò nel 1533 Enrico d’Orléans, futuro re di Francia. Caterina de Medici portò con sé la corte di cuochi, pasticceri e distillatori italiani i quali diffusero prontamente le ricercatezze e i lussi del rinascimento italiano, e tra questi i liquori. Fu così che l’acquavite si trasformò in breve tempo da medicinale, consigliato dai medici per sfruttarne le virtù, vere o presunte, in genere di conforto consumato al solo scopo di ottenere piacevoli sensazioni.

Nuovi sistemi di distillazione

Nel Cinquecento non si distilla più solo vino, ma è nata la distillazione del Kornbrand, e del sidro. Nel ‘600 si diffondono: cognac, gin, whisky, vodka. Sul finire del ‘600 nascono o si diffondono: rum, marc, calvados, le acquaviti di pere e ciliegie, come il kirshwasser, e in Italia la grappa.

Dal punto di vista tecnico, la diffusione delle bevande alcoliche portò all’esigenza di studiare alambicchi in grado di produrre volumi di acquavite più elevati, in minor tempo e a costi inferiori. Nella seconda metà del ‘600 e nei primi decenni del ‘700 scienziati e chimici avendo compreso, anche se non ancora completamente, i principi della distillazione, si concentrano sulla progettazione di alambicchi in grado di produrre grandi quantità di distillato a minor costo.

Nel 1651 il chimico francese Nicola Le Fèvre crea un alambicco per la distillazione del vino composto di caldaia, capitello e condensatore che non differisce molto dagli alambicchi ancora utilizzati nella distillazione artigianale. É in questi anni che il chimico Glauber inventa nuovi apparecchi distillatori che serviranno come modello per le successive variazioni. Lo scaldavino, che permette di evitare i rischi del riscaldamento a fuoco diretto, sarà introdotto dai fratelli Argand.

Un’altra importante innovazione, applicata alla distillazione, fu la teoria sul calore latente del vapore, studiata dal fisico inglese Leslie. Un’unica fonte di calore scalda e fa bollire l’acqua in un recipiente il cui vapore, condensandosi nell’acqua di un altro recipiente, la scalda e la fa bollire. A sua volta il vapore che si forma in questo recipiente, va a scaldare e a far bollire l’acqua di un altro recipiente e così via. In questo modo attraverso un’unica fonte di calore si poteva scaldare, e far bollire, grandi quantità di liquido con un notevole risparmio d’energia. Tale principio, quando fu introdotto nella distillazione dei vini, portò ad una grande trasformazione delle tecniche di distillazione e consentì lo sviluppo della distillazione continua in colonne.

Il primo a sfruttare questa teoria fu Edoardo Adam. Fu però il chimico Solimani che aiutò Adam, sprovvisto di conoscenze specifiche, ad applicare tale sistema. Adam brevettò così nel 1801 un alambicco, perfezionato nel 1805, che permetteva di ottenere acquavite in un unico passaggio.

La successiva tappa per la distillazione dei vini, basata su principi completamente diversi da quelli finora citati, è rappresentata dall’invenzione da parte d’Isacco Bérard, nel 1804, del cilindro a diaframmi. Questo sistema consentiva la separazione dei vapori dell’acqua e dell’alcol, ed era composto di piatti metallici comunicanti tra loro mediante fori che permettevano la successiva separazione dei vapori alcolici provenienti dal vino. L’apparecchio di Bérard consentiva ai vapori acquosi, ancora ricchi d’alcol, di ritornare in caldaia attraverso un tubo di recupero per subire una seconda cotta. Questo apparecchio, pur non essendo ancora continuo, è il punto di partenza dal quale si sono sviluppate le moderne colonne di distillazione e rettificazione.

Il primo apparecchio continuo che applicò i principi di Bérard fu costruito nel 1825 da Cellier-Blumenthal. Fu poi Desiderato Savalle a perfezionare l’alambicco, rendendo la distillazione completamente continua. Questo alambicco fu seguito da quello di Derosne e Cail. In Germania gli stessi principi furono applicati all’alambicco Pistorius e Gall, mentre in Gran Bretagna si affermava la distillazione continua attraverso il Coffey Still.

Sul finire del ‘900 sono state introdotte le nuove tecnologie informatiche per il controllo delle temperature per la separazione degli alcoli e dei cicli di distillazione, soprattutto nella distillazione a colonna. La tecnologia del sottovuoto che consente una distillazione a temperature più basse, garantendo una migliore estrazione delle componenti volatili.

2 Commenti

  1. stò scrivendo un quaderno da pubblicare non solo per i miei clienti dell’enoteca,
    posso usare le foto degli alambicchi
    grazie
    lucio sestili enotecakursaal
    ascoli piceno

    1. Spero che abbia trovato interessante anche l’articolo.
      Usi pure le immagini degli alambicchi. Quella dell’immagine di copertina l’ho scattata nella distilleria Nonino. Pellicano e Idra sono immagini. Le originali sono in bianco e nero, e le ho colorate con un programma di grafica.

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