Recensione a “La casa degli sguardi” di Daniele Mencarelli (2018)
In questa recensione, Katrin Abico (III E) ci porta all’interno di un libro recente, La casa degli sguardi di Daniele Mencarelli, dedicato alla storia di un giovane alcoolista che, grazie ad un nuovo lavoro e al contatto quotidiano con i bambini malati dell’ospedale “Bambin Gesù” di Roma, trova la forza per rimettersi al mondo e “combinare qualcosa di buono”. Leggetela, poi difficilmente non leggerete il volume… |
Secondo me, i genitori e famigliari di Daniele, ormai, hanno perso le speranze nei suoi confronti. Questo si capisce soprattutto durante le scene dei pasti, quando la comunicazione è quasi nulla, solo la madre prova ancora, a volte, a stare vicino al figlio. Daniele pare impassibile di fronte ad ogni situazione. L’unico obbiettivo è dimenticare il suo dolore interiore bevendo. I genitori sono impotenti di fronte qualsiasi decisione del figlio. Ogni giorno vivono il terrore che Daniele si ammazzi. Quasi non credono nel nuovo percorso intrapreso da Daniele in ospedale. Si sono completamente lasciati andare al fato, aspettando il giorno in cui esso si compirà. Daniele però, grazie a Davide, un amico che lavora in una casa editrice, inizia a lavorare per la cooperativa di pulizia al Bambin Gesù: un ospedale pediatrico a Roma. All’inizio, non riesce a sopportare il peso delle disgrazie che lui trova in questo posto, infatti uscendo da lavoro il primo obbiettivo è placare la sua sete di alcol. Però trova un certo disgusto nel presentarsi ubriaco a lavoro, la vergogna, un gesto irrispettoso verso i colleghi, le uniche persone che non hanno avuto pregiudizi nei suoi confronti e che lo rispettano indipendentemente da ciò che ha fatto, infatti sono solo due le scene in cui lui si mostra in stato di ebrezza davanti a loro, e subito si sente in colpa. Quel posto gli piace, lo sta cambiando, quel posto umile dove i problemi sono la malattia e la morte lo distoglie da quella voglia irrefrenabile di bere. All’inizio del libro vi è una scena molto cruda si può dire, ove la madre, prima che Daniele iniziasse il lavoro, stanca della vita che conduce, porta il figlio su un ponte ed è pronta a buttarsi: meglio cessare questa sporca vita, meglio togliere quel peso, pensa la madre. Ed è pronta a farlo con lui. Sarà, invece, proprio Daniele a convincere la madre a tornare a casa.Piano piano, il protagonista si affeziona a quel luogo, in particolare un bambino, Tok Tok, che ogni tanto si presenta alla finestra e insulta Daniele, tra loro nasce un’amicizia fatta di sguardi; i due infatti non udiranno mai la voce dell’altro. I mesi passano, le morti e gli incontri con i bambini malati non cessano e, con il passare del tempo, cessa di esistere anche Tok Tok, solo allora Daniele scoprirà che si chiamava Alfredo, il giorno della sua morte.Daniele smette di bere piano piano, proprio grazie al nuovo ambiente che lui vede, ormai, quasi come un rifugio. Esistono volte i cui l’unica risorsa è prendersela con Dio per tutte le situazioni di morte che l’autore vive senza riuscire a spiegarsele. Non riesce a capire come mai proprio colui che dona la vita debba toglierla a chi della vita non conosce nemmeno il profumo, ma solo l’innocenza, e perché, invece, la vita non viene tolta a lui, che non ha saputo viverla.Daniele, oltre a lavorare nell’ospedale, viene incaricato dal direttore di scrivere una raccolta di poesie su esso e su chi vive al suo interno. Scrive delle vite raccolte lì dentro perché altri non avrebbero potuto farlo, troppe spese per il presidente. Entro un mese consegna una raccolta di ventotto poesie, così belle che il direttore si preoccupa di stamparle e rilegarle.Il libro che ho letto mi ha colpito molto, purtroppo non ho tempo per scrive ancora; nel riassunto ho citato parti del testo che più mi hanno colpito e spinto a ragionare. Purtroppo Daniele Mencarelli è uno tra i tanti casi di alcolismo che esistono.È un libro che consiglierei ai ragazzi della mia età, soprattutto ai miei amici più “sbandati”.
Katrin Abico (III E)
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