L’ultimo degli Eltysev di Roman Sencin
Dopo aver dato voce a tanti allievi e alle loro storie, ora di fantasia ora di vita vissuta, prendo un momento la parola.
Lo faccio per raccontare brevemente una lettura che mi ha molto appassionato e sulla quale mi piacerebbe ragionare con altri lettori. Si tratta del romanzo russo, appena uscito, di Roman Sencin (scrittore siberiano nato nel 1971 e finora segnalatosi per alcuni romanzi e molte vicissitudini biografiche) dal titolo L’ultimo degli Eltysev (Fazi editore, 2017).
Il libro parla di una famiglia normalissima dei giorni nostri: quella degli Eltisev. Il padre, Nikolaj Eltisev, è poliziotto nel commando anti-sbronza della sua città. Un lavoro piuttosto noioso e ripetitivo (sempre a dover convincere la gente fermata per ubriachezza a pagare una “piccola tangente” per poter uscire dalla galera evitando ulteriori grane legali!), senza scosse, ma in grado di permettergli una vita decorosa (addirittura acquistando una fiammante auto Moskvic 2141!) insieme alla moglie, Valentina, bibliotecaria di professione.
La coppia ha due figli poco più che ventenni: Artem e Denis. Quest’ultimo ha reso un vegetale, a causa di un pugno sulla testa troppo forte, un suo coetaneo e ora sta scontando la pena in carcere. Il primo, invece, vegeta punto e basta: ora davanti al televisore Samsung nuovo di zecca ora davanti al muro. Non è chiaro se si comporti così perché un po’ limitato intellettualmente o perché cerchi un riparo dalle incombenze e dalle responsabilità dell’età adulta (“Diversi siamo tutti diversi, certo, ma non di molto. Lui invece era molto diverso dagli altri. Ed era un problema.”, p. 40).
Il colpo di scena che modifica tutta la trama è nulla più che un’increspatura della normalità: Nikolaj sbatte senza troppi complimenti alcuni ubriachi in una stanzetta minuscola del suo commissariato, uno di loro rischia di morire e lo denuncia. La pensione anticipata, dopo trent’anni di servizio, smorza sì il caso giudiziario ma fa andare in pezzi la vita della coppia e del suo non troppo autonomo figlio.
Da qui in avanti, la girandola degli eventi negativi inizia a muoversi vorticosamente: Nikolaj, Valentina e Artem subiscono lo sfratto dalla casa di città, Valentina decide di licenziarsi dalla biblioteca, i tre si trasferiscono in campagna, a Muranovo, paesino desolato con una sola strada asfaltata una volta quarant’anni prima e poi mai più, l’anziana zia Tanja li accoglie nella sua catapecchia, l’auto di famiglia smette di funzionare, i nuovi vicini di casa riescono a truffarli, i debiti li assediano. Nikolaj si getta alla ricerca affannosa di materiali con cui costruire una nuova casa che permetta al nucleo familiare di ritrovare l’indipendenza dall’anziana zia ma, vuoi per un motivo vuoi per un altro, non ci riesce e sprofonda nel vuoto esistenziale, non essendo più capace di decidere alcunché della sua sorte.
Oltre a questo, il pigro Artem, conosce e ha una relazione con Valentina, paesana belloccia e tutt’altro che irreprensibile che scopre ben presto di aspettare un figlio da lui. I due si sposano, le rispettive famiglie non legano (anzi litigano ferocemente) e per un po’ Artem, con fastidio, diventa domestico della moglie e della di lei famiglia.
Intanto Nikolaj e Valentina si danno alla vodka, sia come bevitori sia come commercianti di alcool di contrabbando. Poco alla volta, la via verso il loro inferno terreno è segnata: in un succedersi di stagioni sempre più uguali, tutte in bianco e nero, i due cinquantenni perdono di vista ogni valore, ogni senso della dignità personale e si abbrutiscono, non provando più alcun sentimento autentico per alcuno. Quando Artem lascerà sua moglie e il figlioletto per trasferirsi in città alla ricerca di una vita migliore, l’ultima speranza degli Eltysev si chiamerà Denis, ormai a fine detenzione. Ma a questo punto madre e padre Eltisev avranno già le mani sporche di sangue (quello della zia, misteriosamente perdutasi in paese in una giornata rigidissima, quello del vicino di casa, che non aveva mai restituito il denaro estorto a Nikolaj con l’inganno, quello del figlio Artem, tornato dalla città alla fine del contratto di lavoro e nuovamente intenzionato a farsi mantenere da loro) e il romanzo non potrà che chiudersi senza lasciar brillare alcuna fiammella di speranza.
Questo, in breve, il riassunto del libro. Ora sarebbe bello porsi alcuni interrogativi forti: fino a che punto l’uomo è tale, se non ha soldi con cui comprarsi il minimo indispensabile per sopravvivere? Fino a quando lo spirito, la riflessione, la speranza possono vivere nelle persone che stanno perdendo ogni fiducia in se stessi e negli altri? Il simbolo della provincia, lontanissima dai grandi centri, è metafora della nostra società sempre più monocellulare, sempre più priva di argomenti forti per riempirci la vita di qualcosa di vero e verace? Non resta altro passatempo, all’uomo occidentale, che ubriacarsi di vodka per dimenticare il nulla che sembra avvolgere tutto e tutti?
Come anticipato, mi piacerebbe conoscere le vostre risposte.
Ho letto il libro con il mio gruppo di lettura condivisa, mi è venuto in mente il nostro I MALAVOGLIA, anche se qui si beve dal mattino alla sera. È certo triste che una famiglia scenda la china della dignità in pochi anni: di certo ci sono alla base un padre violento e una madre complice e la sfortuna e la provincia hanno fatto il resto. Tutti i personaggi suscitano compassione in quanto esseri umani