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Le principali figure retoriche della poesia del Decadentismo

Durante la fase del Decadentismo (1875-1915 circa), la letteratura europea scoprì l’inconscio, l’assenza di valori etici e religiosi forti (la morte di Dio teorizzata da Nietzsche), il valore della bellezza effimera (Wilde e Huysmans), l’eterno ritorno della Storia, l’annullamento del carattere distintivo del protagonista (Kafka, La metamorfosi), l’interscambio tra uomo e Natura per aprire nuove vie alogiche di riflessione sul tutto (Baudelaire), l’illuminazione improvvisa (Rimbaud, Verlaine), che permetteva di accostare, trasformandole in simboli, parole molto lontane tra di loro. Tutti questi valori erano fortemente antipositivisti e volevano negare valore all’analisi oggettiva della realtà.

Anche Giovanni Pascoli, come Gabriele D’Annunzio, fece propri i valori del Decadentismo e, nelle sue poesie, li inserì in figure retoriche che ricorrono spesso nelle sue raccolte principali (Myricae, Poemetti e Nuovi poemetti, Canti di Castelvecchio).

Vediamone alcune, spiegandone i significati.

L’Allegoria è, per alcuni studiosi, una metafora continuata o, per altri, un insieme di simboli astratti. Esempio significativo di allegoria è la nave che solca i mari in tempesta: essa si richiama al cammino dell’uomo che, nel corso delle fatiche della vita, cerca di realizzare i suoi obiettivi.

L’Analogia è invece un procedimento che accosta realtà molto diverse tra loro, per sottolineare al loro interno corrispondenze che mai a nessuno erano venute in mente prima. L’effetto di questo procedimento è lo straniamento: il lettore scopre per la prima volta che due parole, tra loro scollegate a livello logico, possono dare vita ad un nuovo significato se accostate. Quando Ungaretti scrive che la “Vita” è una “Corolla di tenebre”, vuole far capire al lettore, mediante uno sforzo immaginativo, che la vita è bella come un fiore ma è avvolta dal buio esistenziale: bella sì ma piena di dolore e di interrogativi.

Fonosimbolismo: un simbolo che si crea grazie all’utilizzo di un suono, all’interno di una o più parole. Ciò perché il poeta vuole ottenere con quel termine una sensazione acustica o anche visiva: Zang tumb tumb di Marinetti richiama il suono di bombe che esplodono, senza utilizzare alcuna parola di senso compiuto.

Onomatopea: figura di suono che riproduce, attraverso singole sillabe che hanno valore musicale e non logico, il suono della natura o di oggetti inanimati che circondano il poeta: don don delle campane è un esempio di onomatopea. In Pascoli, l’onomatopea riproduce il suono di una voce lontanissima, fuori campo, addirittura fuori dall’esistenza, per testimoniare la sua presenza; essa richiede a chi la sente un’interpretazione personale.

Allitterazione: ripetizione della stessa sillaba nell’intento di sottolineare un suono particolare: me medesmo meco mi struggo (Petrarca). Anche l’assonanza (la presenza reiterata nel verso di vocali simili) e la consonanza (la presenza reiterata nel verso di consonanti simili) hanno lo stesso effetto sonoro.

Sinestesia: accoppiamento di termini, molto amato dai Simbolisti, che rimandano a due sensi diversi: “Fresche (TATTO) le mie parole (UDITO)” (D’Annunzio, La sera fiesolana)

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