Le poesie di Ungaretti ne “Il porto sepolto” (1916)
Giuseppe Ungaretti, nato nel 1888 e morto nel 1970, fu un autore molto sfaccettato, cambiando sovente idea, dal punto di vista politico (fu fascista ma conservò il opsto all’Università di Roma nel 1945) e religioso (dapprima ateo e poi convertito al cristianesimo.
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La prima raccolta di poesie di Ungaretti, Il porto sepolto, risale al 1916, quando il poeta era sul fronte di guerra sul Carso, in Friuli, come volontario. Partito da ideali simili a quelli del Futurismo, Ungaretti, non appena conosce la realtà di morte e devastazione della Prima guerra mondiale (che l’Italia sta combattendo contro l’Impero Austro-Ungarico), cambia totalmente il suo modo di intendere la vita e la scrittura. Questa raccolta verrà poi in seguito modificata ed ampliata, quanto al numero di poesie, e acquisirà i titoli di Allegria di naufràgi (1919) e poi di L’allegria (1931).
Poco più che trentenne, Ungaretti ha una forte fame di vita pura, quella che ha letto e apprezzato in Baudelaire e nei Simbolisti, ma è anche capace di un acuto sguardo psicologico sui momenti “ultimi”, sugli istanti finali di una giovane vita, come quella dei soldati che muoiono tra le trincee. Momenti che racconta con uno stile molto rarefatto e una concisione estrema, senza giri di parole.
Davanti ad un’esperienza che ogni giorno può avverarsi, la morte, Ungaretti si concentra, sia a livello umano sia a livello lessicale, su ciò che è essenziale. Egli utilizza versi brevi o brevissimi, ricchi di non detto, di simbolismi, di analogie e di accostamenti tra idee apparentemente lontane e distinte: tocca al lettore ricomporne il cui significato. Il verso non prevede rime, solo spazi bianchi; è il trionfo del verso libero. E’ una ricerca che parte da lontano, dall’interiorità che vuole emergere, pura, senza fronzoli, diretta.
Nelle poesie, molti sono i participi passati (“buttato, digrignata, straziato” in San Martino del Carso): Ungaretti li utilizza per dare un senso di già compiuto, di già verificato ai pensieri che scrive. Le parole sono trattate come entità singole, depurate da legami logici (qui si vede molto la lezione de I fiori del male di Baudelaire).
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Il porto sepolto
All’interno di questa brevissima poesia, che dà il titolo alla raccolta del 1916, scritta e pubblicata in soli 80 esemplari durante la Prima guerra mondiale, Ungaretti chiarisce che cosa sia, per lui, il mestiere del poeta.
Il poeta è un palombaro, un sub, una persona che, a differenza degli altri, scende dentro se stesso, dentro un essere che, prima di nascere, era immerso nell’acqua del ventre materno. Qui, in fondo al mare (l’occasione reale da cui nasce la poesia è la presenza, sotto il mare di Alessandria d’Egitto, città in cui è nato, di un antico porto sepolto dal mar Mediterraneo), il poeta si immerge; qui trova la sua ispirazione, i suoi canti. Una volta che li ha visti, li raccoglie e riemerge, pronto a disperderli, a renderli noti a tutti, nel mondo. E’ una conoscenza altissima, ma personale, non divina, non assoluta (quindi lontana dall’idea di Superuomo).
Il poeta non può fare altro che simboleggiare il grande cantore dell’antichità mitologica: è un Orfeo che scende negli inferi e poi porta con sé quello che può. Un messaggio incompleto, di cui non gli resta altro, dopo averlo pronunciato, che un nulla, che rimanda all’inesauribile segreto che è nascosto sott’acqua, ovvero dentro di noi (le poesie sono a p. 648-662 dell’antologia).
San Martino del Carso
La poesia, una delle più note de Il porto sepolto, è stata scritta passando all’interno di un paese friulano, San Martino del Carso appunto, completamente distrutto dalle bombe austriache. Il senso di stanchezza, di svuotamento e di devastazione prodotto nel poeta danno luogo ad un’opera molto intensa, molto essenziale, fondata sull’analogia tra cuore dell’uomo e paese distrutto.
Delle case di San Martino del Carso non è rimasto in piedi che qualche pezzo di muro. Delle tante persone che scrivevano al poeta non è rimasto in vita neppure ciò che si vede a San Martino del Carso (ovvero le poche mura sbrecciate): sono tutti morti.
Il poeta, come persona che sa scendere dentro di sé e trovare l’essenza delle cose, custodisce nel suo cuore ogni croce, ogni simbolo di morte.
Perché è il cuore del poeta il vero paese di San Martino del Carso (ovvero: il cuore di Ungaretti è il posto che, a confronto del paese bombardato, conosce lo strazio peggiore).
I fiumi
La poesia è stata scritta subito dopo il Ferragosto del 1916, in piena zona di guerra. E’ un momento di pace, un momento sospeso. Ungaretti sta facendo il bagno in una dolina (un’insenatura del fiume Isonzo, in Friuli). In lui, mentre si abbandona nell’acqua (che simboleggia forse la stessa acqua del ventre materno di cui abbiamo visto in Il porto sepolto), c’è la tristezza degli artisti di un circo che hanno appena chiuso uno spettacolo. Il poeta si rilassa e guarda il cielo.
In quest’acqua in cui si distende, il uso corpo ha il valore di una reliquia, è una pietra preziosa.
In seguito, il poeta si è alzato e, come un acrobata del circo della vita, si è messo di fianco ai suoi sporchi vestiti, usati in combattimento. Come un beduino del deserto (ricordate che egli è nato ad Alessandria d’Egitto), si è messo a prendere il sole.
Analogicamente, lì nasce una riflessione sulle acque che lo hanno accompagnato nel suo percorso biografico, come se i fiumi della sua vita fossero state le sue fonti di nutrimento spirituale e fisico. Nel fiume Isonzo, dove si combatte, Ungaretti ha capito di essere una docile fibra dell’universo: una vita umana è infatti uno dei miliardi di fili che completa il grande tappeto dell’esistenza.
Il poeta sta male quando non è in armonia con il cosmo, con l’universo. Però le mani dei fiumi, che lo bagnano, lo fanno sentire a posto, in pace con tutto.
Stando lì, gli vengono alla mente anche gli altri fiumi della sua esistenza: il Serchio, fiume di Lucca da cui è nato e da cui proviene la sua famiglia; il Nilo egiziano, dove è nato e cresciuto, dove ha provato l’inconsapevolezza tipica dell’adolescenza; la Senna, il fiume della giovinezza (aveva infatti studiato a Parigi): nelle sue acque torbide, specchiandosi, si è riconosciuto ed è diventato l’adulto che ora è. Tutti i fiumi della vita di Ungaretti sono racchiusi nell’Isonzo.
Nelle loro acque, Ungaretti rievoca la propria vita, ora che c’è la guerra e tutto gli appare oscuro, triste, mortifero.
Veglia
Poesia notissima, che rievoca una notte fuori dalla trincea, nell’impossibilità di muoversi a causa del fuoco delle mitragliatrici austriache, con un cadavere accanto, morto dopo aver provato un grande dolore fisico. E’ il trionfo dei participi passati: il poeta era buttato per terra, accanto ad un compagno di lotta massacrato, che aveva la bocca digrignata (stretta in un riso quasi estremo a causa del dolore che aveva patito), rivolta alla luna, con il colore bluastro delle mani, dovuto alla morte. Questa congestione, la fine dell’esistenza è entrata nel cuore del poeta che, in compagnia della morte, della morte dolorosa, ha scritto nella sua mente lettere ricche dell’antidoto più forte all’odio: l’amore.
E’ l’amore che ci lega alla vita, quando si misura, a due passi, che cosa è la morte.
Soldati e Mattina.
Sono due poesie in cui si riflette, nella prima, sul nulla della vita umana, che ora c’è e subito dopo è spazzata via dalla guerra (l’autunno del testo), nella seconda, su quanto, al risveglio, tutto sappia di eterno, di immenso. Solo venendo rischiarati da un raggio di sole, che però può durare pochissimo, sino al prossimo ordine di attacco contro i nemici (che tutto può spazzare via).