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“L’albatro” di Baudelaire nel commento di Konstantinos Kavafis

Il brano che segue è tratto dal libro di Ersi Sotiropoulos, Cosa resta della notte, Milano 2019. In quest’opera la scrittrice greca vivente scrive una biografia romanzata del poeta greco di primo Novecento Konstantinos Kavafis. Qui di seguito, la riflessione di Kavafis sulla perfezione, formale, contenutistica e umana, della poesia L’albatro di Baudelaire (tratta da I fiori del male, 1857).

[…] esistevano poesie che si dedicavano soltanto ad un particolare, pensò. Catturavano un filo, solo una piccola trama del ciclo della vita, qualcosa di quasi inesistente in mezzo al caos delle passioni e degli avvenimenti. Lo catturavano e lo dissezionavano. E queste composizioni che spuntavano da un nonnulla, a volte erano dei capolavori. Poesie del genere lo attiravano. Sceglievano un’immagine, un episodio qualsiasi e cominciavano a scavare. Come L’albatro di Baudelaire. Era una poesia di un equilibrio perfetto, se ne ricordava spesso come esempio di uno svolgimento progressivo, di un consolidamento graduale, di strofa in strofa, dell’intensità poetica che sentivi tangibile mentre leggevi. La tecnica era impeccabile. Eppure non vuota. Non appesantiva il senso. Sembrava un sonetto [composizione poetica formata da due quartine e due terzine di endecasillabi] ma non lo era: quattro strofe di quattro versi ciascuna.

Spesso, per divertirsi, i marinai

Catturano degli albatri, grandi uccelli dei mari.

Ecco l’inizio, che ti prendeva di sorpresa. Uno stimolo per quanto sarebbe seguito.

Indolenti compagni di viaggio delle navi

In lieve corsa sugli abissi amari.

E, ancora, suscitava il desiderio di saperne di più. Gli albatri volavano ancora liberi eppure sapevano già – sin dal secondo verso – che sarebbero stati presi prigionieri. E poi come continuava? Che cosa diceva la seconda strofa? Non se ne ricordava. E la terza? Neanche quella. Riusciva a ricordare a memoria l’ultima, ma aveva dimenticato le due di mezzo. Quel che gli era rimasto in mente era che risuonavano come un’amara ironia per lo scherno a cui erano sottoposti questi uccelli viaggiatori. Lontani dal cielo, catturati sul ponte della nave, presi in giro dai marinai. Gli solleticavano il becco, deridevano il modo in cui zoppicavano quando tentavano di camminare, incapaci di spiegare le loro ali. Quanti vili e tristi sembravano quei re del cielo con le loro ali gigantesche, che non reagivano all’umiliazione, ma la sopportavano quasi indifferenti. Ecco cosa diceva Baudelaire nelle prime tre strofe.

E poi, all’improvviso, giunto alla strofa conclusiva, paragonava il Poeta agli albatri. Qui c’era la chiave di volta. Come gli albatri, anche il Poeta ignora cosa gli accade intorno, vive esiliato sulla terra, portandosi dietro le sue grandi ali che gli impediscono di camminare. Era una poesia eccellente. […]

Il Poeta è come lui, principe delle nubi

Che sta con l’uragano e ride degli arcieri;

esule in terra fra gli scherni, impediscono

che cammini le sue ali di gigante.

[…] Quel che evocava in te oltrepassava di gran lunga le parole di quei versi. Come se il senso si estendesse ben oltre la poesia. Per questo era così ben riuscita. E la splendida metafora di Baudelaire, dall’uccello marino al poeta, come entrambi arrancavano sulla terra trascinando le loro ali, non abbracciava forse il destino dell’uomo, senza rivelarlo esplicitamente? Questo albatro aveva un’importanza ancora più profonda, Baudelaire non l’aveva scelto solo per illuminare la condizione del Poeta. C’era una dualità lì, la conflittualità della natura umana. Ogni uomo, e non solo il Poeta, non era forse condannato a vivere inchiodato sulla terra, mentre dentro di sé anelava a qualcosa di superiore? Non desiderava ardentemente l’infinito e cercava rifugio nelle religioni, conforto nell’alcol, nel gioco o nelle braccia di qualcuno? Era mortale, ma sperava nell’eternità, e qualche volta, agitando le grandi ali, si illudeva. Solo per un po’. L’illusione non durava a lungo. Il desiderio vano, le ali inutili, ogni giorno gli ricordavano, tormentandolo, ciò che gli era irraggiungibile. La stessa presenza delle ali, il fatto che ne fosse dotato, sbeffeggiava la sua condanna. Ali indegne. Non era forse così, l’uomo? Viveva cercando di esorcizzare la morte e qualche volta se ne dimenticava, nella vertigine e nello scorrere irruento del giorno. Ma il terrore tornava sempre. Quindi si gettava di nuovo nella lotta impari, in un atroce confronto per allontanare “quella cosa terribile” […] e negli anni contati della sua vita, dall’infanzia alla vecchiaia estrema, avanzava come il gabbiano incatenato, trascinando le sue ampie ali sulla terra, traballando e incespicando.

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