I canti di Giacomo Leopardi
Leopardi, sin dal 1816, anno della sua conversione dalla cultura antica “al bello”, era stato molto vicino ad un tipo piuttosto strano di classicismo. Anche se si era schierato contro le tesi a favore del Romanticismo europeo scritte da Madame de Stael nel 1816, la sua idea di poesia mescolava tratti dell’antico classicismo a tratti del nuovo stile di scrittura romantico. In particolare, Leopardi credeva che la poesia antica simboleggiasse un momento “infantile” dell’umanità. L’unico momento perciò si può essere spontanei, ricchi di immaginazione, senza controllo della ragione. Per lui, questo classicismo è pieno di ingredienti romantici, che aiutano l’uomo ad esprimere al meglio il suo IO con il ricordo del passato, con il vago, con la lontananza,
Piccoli idilli (1819-1821)
Tra le forme di poesia, Leopardi ama particolarmente la lirica breve, l’idillio, che meglio di altre gli permette, negli anni giovanili, di esprimere ciò che sente dentro di lui, il conflitto tra illusione e realtà. Usando una struttura tipicamente antica (avevano usato l’idillio i poeti greci Mosco e Teocrito, parlando di fatti e personaggi tipici della campagna), Leopardi sta dalla parte dell’immaginazione. Solo con essa è infatti possibile provare un piacere infinito, non limitato dalla realtà; esso cesserà, facendoci ripiombare nel dolore, una volta che la vita reale riprenderà il sopravvento sui nostri pensieri. I piccoli idilli più famosi di Leopardi (scritti tra il 1819 e il 1821 e poi confluiti ne “I canti“) sono “L’infinito”, “La sera del dì di festa”, “Alla luna”.
“L’infinito” è stato scritto nel 1819 ed è ambientato sul cosiddetto monte Tabor di Recanati. Al suo interno, una siepe definisce il confine tra lo spazio visto e quello immaginato. Dopo la sensazione visiva, si passa ad una uditiva, con il vento che fa muovere le foglie. Quando Leopardi ascolta il vento stormire, paragona il silenzio al suo suono. Ciò gli permette di immaginare l’eternità, il passato e il suono dell’età presente. Mentre medita su queste cose, il suo pensiero si smarrisce. Ma gli è dolce naufragare nel mare dell’infinito (ovvero del puro piacere immaginativo).
Grandi idilli (1828-1835)
Nei grandi idilli, scritti da Leopardi a Pisa nel 1828, in uno dei momenti più sereni della sua vita, egli riprende i temi dei piccoli Idilli. Ma con una consapevolezza in più: sa che il vero, la Natura, sono contrari alla vita dell’uomo, lo maltrattano, senza che egli possa capire perché. Tutto ciò che si immagina, che dà piacere, è dunque puro inganno. Le opere più importanti, che la critica riconduce ai Grandi Idilli sono “A Silvia”, il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, “La quiete dopo la tempesta” e “Il sabato del villaggio“.
In quest’ultimo poema, una canzone libera che abbandona ogni tipo di schema petrarchesco, Leopardi si serve di un espediente narrativo: una ragazza che torna dalla campagna, con un mazzo “di rose e di viole”. Con esso, la domenica, si abbellirà il petto e i capelli. Intanto, nuova scena: una vecchia racconta alle amiche la sua allegra gioventù. Il cielo si rasserena e la campana dà il segno dell’arrivo del giorno festivo. I ragazzi giocano sulla piazza, lo zappatore torna a casa per mangiare e riposarsi. Di notte, solo la sega del falegname è ancora attiva. Il sabato è dunque il giorno della settimana preferito da tutti. Per una ragione: è pieno di speranza e di gioia. Domani, domenica, la noia tornerà e anche il dolore, quando si penserà a riprendere il lavoro della settimana. L’idillio si chiude con un’apostrofe a un ragazzino, scherzoso perché ancora libero dai pensieri della maturità: la sua giovinezza è come un giorno allegro che prepara la sua vita futura. L’invito di Leopardi è chiaro: goditi fin che puoi la gioventù, fanciullo, non essere impaziente di diventare adulto. L’età matura sarà la fine dei sogni e di ogni tipo di piacere. In seguito, solo dolore e noia ti attendono…