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Alcune riflessioni da “I sommersi e i salvati” di Primo Levi (Torino, Einaudi, 1986)

Dopo la gelida accoglienza che il pubblico italiano riservò a Se questo è un uomo, volume che Primo Levi aveva pubblicato nel 1947, il chimico e scrittore torinese non scrisse più per diversi anni. Solo una nuova, fortunata riedizione di questo testo, apparsa nel 1957 per Einaudi, lo rese famoso.

A seguire uscirono – per citare i più noti libri di Primo Levi – La tregua nel 1963 (il racconto dell’avventuroso viaggio di ritorno di Levi in Italia, dopo la detenzione nel campo di sterminio di Auschwitz), Il sistema periodico, La chiave a stella, Se non ora, quando?, tutti tra gli anni ’70 e ’80 del XX secolo.

Il testo però più ricco di implicazioni filosofiche e dotato di grande originalità è sicuramente I sommersi e i salvati  (pubblicato nel 1986). In questo libro Levi, sin dal titolo, si interroga su ciò che egli stesso, dopo l’esperienza nel campo di concentramento, è diventato, insieme ai suoi compagni di detenzione. Salvato, come altri, egli è tornato ad una vita quasi normale, ad una routine lavorativa che lo ha portato ad una bella carriera professionale, in uno stabilimento chimico di Settimo Torinese.

Ma si può considerare un testimone, solo per aver vissuto quella terribile esperienza? Levi risponde di no. E’ una risposta inattesa, che suscita molte critiche, già anticipata nel testo Se questo è un uomo. Ma Levi argomenta il suo pensiero: lui si è salvato e, come tale, ha dimostrato di essere peggiore di chi invece è stato sommerso dall’ondata di odio dei nazisti. Lui, come altri sopravvissuti, per abilità personale o per semplice fortuna, non ha toccato il fondo. Chi è rimasto in vita si sente in dovere di ricordare agli altri quello che ha vissuto. Ma parla anche per conto di quelli che sono morti, ovvero i sommersi. Secondo Levi, costoro non avrebbero parlato: dato che sono stati cancellati dalla vita, non avrebbero mai detto nulla a nessuno perché la loro morte interiore era precedente a quella del corpo.

Inoltre, con il passare del tempo, “L’esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dei Lager nazisti è estranea alle nuove generazioni dell’Occidente, e sempre più estranea si va facendo man mano che passano gli anni”.

Levi si rende conto che è indispensabile raccontare per evitare che tali esperienze brutali si ripropongano, ritornino nella storia futura. Ma sa anche che “la memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace [non sempre veritiero]. E’ questa una verità logora, nota non solo agli psicologi ma anche a chiunque abbia posto attenzione al comportamento di chi lo circonda o anche solo al suo comportamento. I ricordi che giacciono in noi non sono incisi sulla pietra; non solo tendono a cancellarsi con gli anni, ma spesso si modificano, o addirittura si accrescono, incorporando lineamenti estranei. Lo sanno bene i magistrati: non avviene quasi mai che due testimoni oculari dello stesso fatto lo descrivano allo stesso modo e con le stesse parole, anche se il fatto è recente, e se nessuno dei due ha un interesse personale a deformarlo.”

Chi vuole cercare di rimuovere dalla sua memoria un ricordo brutto o scomodo, a maggior ragione, o lo rimuove o lo sopprime (come hanno cercato di fare i criminali di guerra nazisti). Ma lo stesso fanno i deportati che sono tornati a casa.

Che cosa si comprende allora di quanto si è vissuto, nonostante si tratti di un fatto tremendo come la deportazione? Nel capitolo La zona grigia, uno dei più interessanti e originali del volume I sommersi e i salvati, Primo Levi scrive che “comprendere coincide con semplificare”. In una storia, anche semplice, siamo portati a dividerci in partiti, “noi” e “loro” (vedi la popolarità del gioco del calcio). Chi parla di Lager vorrebbe dividere chi faceva parte dell’idea di “Bene” e chi invece faceva parte dell’idea di “Male” (vedi qui la mappa di Auschwitz Birkenau).

Il Lager però scombussola tutto: “L’ingresso in Lager era invece un urto per la sorpresa che portava con sé. Il mondo in cui si era precipitati era sì terribile, ma anche indecifrabile: non era conforme ad alcun modello, il nemico era intorno ma anche dentro, il “Noi” perdeva i suoi confini, i contendenti non erano due, non si distingueva una frontiera ma molte e confuse”. Per questo il nuovo deportato si perdeva nel campo, tutti gli erano ostili, anche i compagni di sventura.

Per questo nasce la “zona grigia”: “Dove esiste un potere esercitato da pochi, o da uno solo, contro i molti, il privilegio nasce e prolifera” e fa sì che i prigionieri cerchino di allearsi con i carnefici, magari solo per un pasto caldo in più, perché è tanto “diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare con il potere”.

Del resto, tanto nel lager quanto fuori di esso, nella vita di tutti i giorni, “esistono persone grige, ambigue, pronte al compromesso”: “Il potere è come la droga: il bisogno dell’uno e dell’altra è ignoto a chi non li ha provati, ma dopo l’iniziazione […] nasce la dipendenza e la necessità di dosi sempre più alte”.

Tutti potevano, a quell’epoca, in quel luogo, potevano cadere nel baratro: “Molti, come accennato, aspiravano al potere spontaneamente: lo cercavano i sadici, certo non numerosi ma molto temuti, poiché per loro la posizione di privilegio coincideva con la possibilità di infliggere ai sottoposti sofferenza e umiliazione. Lo cercavano i frustrati, ed anche questo è un lineamento che riproduce nel microcosmo del Lager il macrocosmo della società totalitaria: in entrambi, al di fuori della capacità e del merito, viene concesso generosamente il potere a chi sia disposto a tributare ossequio all’autorità gerarchica, conseguendo in questo modo un’autorità altrimenti irraggiungibile. Lo subivano infine molti fra gli oppressi che subivano il contagio degli oppressori e tendevano inconsciamente a identificarsi con loro”.

Chi può resistere a questa miscela devastante? Solo chi ha senso di responsabilità e una forte ossatura morale,

Oggi, come allora, tutti possiamo cadere nel baratro della ricerca del potere e del privilegio, fiori del male che germogliano dalla prevaricazione: “anche noi siamo abbagliati dal potere e dal prestigio da dimenticare la nostra fragilità essenziale: col potere veniamo a patti, volentieri o no, dimenticando che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori dal recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno”.

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