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La Shoah: significato del termine e una testimonianza dal Lager di Primo Levi

Fino a non molti anni fa, per definire la morte violenta di circa 6 milioni di ebrei durante gli anni della Seconda guerra mondiale, si utilizzava il termine Olocausto. Questa parola rendeva bene il significato di una strage di massa ma aveva una forte connotazione di tipo religioso, richiamando l’idea di un sacrificio inevitabile. Cosa che lo sterminio ebraico non era affatto.

Attualmente, per designare la più grave strage fondata sul concetto di razza del Novecento si preferisce utilizzare il lemma Shoah, un termine più neutro, nella sua spaventosità: esso significa infatti distruzione del popolo ebraico.

L’idea della necessità di eliminare gli ebrei, non nuova a molti antisemiti dell’Ottocento, era stata argomentata da Hitler nel suo famigerato libro Mein Kampf (la mia battaglia), scritto nel 1924 e uscito nel 1925: la bibbia dell’antisemitismo europeo. Al suo interno, il futuro Furher esprimeva il suo pensiero antiebraico, derivato dalla lettura dei falsi Protocolli dei Savi di Sion (documento preparato, ad inizio Novecento, dai servizi segreti dello zar di Russia, nel quale si voleva dimostrare che il popolo ebraico era in grado di governare il mondo, la finanza, e ogni attività umana). Gli ebrei, diceva Hitler, “agiscono come i peggiori bacilli, avvelenano gli spiriti”. Egli pensava infatti che il popolo ebraico fosse un covo di comunisti che volevano la rivoluzione marxista, oltre che avvelenare la vita civile degli europei sostituendo la razza bianca, in combutta con i neri (esseri che “per la loro origine” erano “una mezza scimmia”, parole del Mein Kampf). La peggior colpa degli ebrei, per Hitler, era quella di voler inquinare le razze, contaminarle con il loro sangue infetto.

Dopo una serie di tentativi di sterminio pianificato (tutti troppo costosi: vuoi con le armi vuoi con l’avvelenamento di gas di scarico), durante la Seconda guerra mondiale il nazista Heydrich fornì a Hitler, nella conferenza di Wannsee del gennaio 1942, l’idea giusta: bisognava eliminare il problema ebraico introducendo metodi di sterminio industriali, condotti in serie, sull’esempio delle grandi fabbriche tedesche o americane che seguivano la ripartizione dei tempi di lavoro pensata da Taylor. I campi di concentramento, per la loro struttura, potevano essere utilizzati in questo modo, se si voleva davvero chiudere la questione ebraica una volta per tutte.

All’interno dei campi, scrive Primo Levi ne I sommersi e i salvati (libro edito nel 1986, un anno prima del suo suicidio a Torino), “sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti”. Chi erano i migliori, tra i deportati? Coloro che erano troppo civilizzati, coloro che non potevano vivere senza normalità, senza decoro, senza intimità. Erano, in poche parole, i più delicati e innocenti, coloro che detestavano schiacciare i pidocchi che li assediavano, che detestavano mentire e rubare il cibo.

Il Lager, con le sue regole folli, assurde, era un esperimento biologico e sociale, secondo Levi: “Si rinchiudano migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi, e siano qui sottoposti ad un regime di vita constante, controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell’animale-uomo di fronte alla lotta per la vita.”

Auschwitz era nel bel mezzo di una grigia pianura del sud della Polonia, spazzata sovente da un vento gelido. Le baracche, al suo interno, erano di legno e contenevano 148 cuccette disposte su tre piani. Al loro interno dormivano 250 prigionieri (italiani, inglesi, francesi, russi, polacchi, ucraini ecc.). Alla sera si riposavano su un materasso quasi invisibile; ciascuno aveva due coperte sporche e un cuscino fatto di paglia. Dormire voleva dire avere incubi; inoltre, nel corso della notte, erano tanti gli stimoli ad urinare o defecare, a causa della brodaglia distribuita nel campo. I sogni erano particolarmente amari perché i prigionieri sognavano il cibo che non avevano, racconta Levi in Se questo è un uomo  (1947).

All’alba, i prigionieri venivano svegliati e fatti disporre nella piazza al centro del lager. Lì veniva fatto l’appello, che poteva durare ore e ore. Dopo l’appello, era il turno del lavoro, più o meno di fatica. A mezzogiorno era il momento del rancio, un litro di zuppa con pochi pezzi di cavolo e rapa. La media di calorie che ciascun prigioniero otteneva mangiando quel rancio, integrato da circa tre etti di pane nero al mattino, erano inferiori alle 1000 al giorno, la metà di quanto servirebbe ad un uomo adulto e in salute. Si moriva spesso nei Lager: per le botte, per il freddo, per la paura, le malattie (come quando si incarniva un’unghia del piede a causa delle scarpe troppo strette e il dito andava in cancrena). Si moriva di tifo o di diarrea, quest’ultima causata dalla denutrizione.

“Soccombere era la cosa più semplice”, per Levi. Vivere era più difficile. Bisognava trasgredire le regole col rischio di essere puniti (magari per stare al caldo un momento in più o per ripararsi dal vento), rubare e escogitare piani per ottenere più cibo. Inoltre, non bisognava parlare mai delle camere a gas, della famiglia e del cibo di casa. Chi lo faceva, cedeva in fretta. Dopo il lavoro del giorno, i prigionieri tornavano alle baracche. Qui venivano ricontati, ricevevano la seconda dose di zuppa, si spogliavano, e schiacciavano le pulci e i pidocchi che portavano addosso, nei loro vestiti. Alle nove di sera, bisognava essere a letto. Pronti a svegliarsi nuovamente, all’alba. Se non si fosse morti durante la notte.

Sull’antologia di quinta, si può leggere il passo da Se questo è un uomo, dedicato alle condizioni di vita dei deportati, alle pp. 849-852.

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