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Gogol, introduzione ai Racconti di Pietroburgo

Ci sono autori e autori, nella storia della letteratura mondiale di ogni tempo. Scrittori che intendono stupire il lettore, scrittori che vogliono sollecitarne la riflessione, altri che perseguono il cambiamento morale della società, altri ancora che, con il riso, colpiscono senza ritegno al basso ventre i vizi capitali di una società non così virtuosa come vorrebbe apparire ai contemporanei e ai posteri.

Alcuni autori russi dell’Ottocento, come Nikolaj Gogol, ancorano alla fantasia la loro riflessione e, grazie a questa miniera d’oro, sono in grado di cambiare luce ai fatti che raccontano. Ora con un tocco di ironia ora con una pennellata di sarcasmo. A costoro non fa neppure difetto l’esercizio di stile, l’arabesco fine a se stesso, il foglio d’album d’inarrivabile surrealismo, il non senso che ci fa esclamare “ma che cosa vuol dire una narrazione di questo genere?”.

I due racconti Il cappotto (1842) e Il naso (1836) rappresentano due esiti di alto livello artistico che non sempre si offrono, in tutto il loro splendore, al lettore. Quest’ultimo, se non vuole perdersi un piacere tanto alto quanto riservato a pochi, deve accostarsi loro con circospezione, non aspettandosi quello che essi non possono dargli: risposte al perché dell’assurdo che attanaglia le esistenze, risposte al perché dell’insignificanza delle nostre vite.

Akakij Akakievic, protagonista de Il cappotto, vive un’esistenza all’ombra degli altri colleghi d’ufficio; è umile, insicuro, sbeffeggiato da tutti, anche dal destino. Vive per potersi comprare un cappotto (una necessità assoluta, visto il freddo di Pietroburgo): quando riesce a permettersi la confezione di un pastrano, ringalluzzisce. Inizia a venire considerato dai colleghi, viene addirittura invitato ad una festa. Il destino, però, lo attende nelle vie della città dalle notti bianche: i ladri gli strappano il cappotto nuovo, lui cerca una giustizia troppo elevata, forse troppo astrusa per la sua umile condizione di copista, il gelo lo avvolge e in breve tempo se lo porta via. Ma Akakij non muore del tutto: il suo fantasma perseguita coloro i quali, ricchi, lo hanno umiliato ed offeso in vita, soprattutto chi avrebbe potuto rendergli giustizia e non lo ha fatto. Gogol prova affetto per questi “ultimi”: non in vita – ché la vita è durissima, nella Russia dell’Ottocento, per loro – ma in morte, riabilitandoli per mezzo di fuochi artificiali di fantasia che rendono meno tetra, e giusto un più ricca di affetto, la loro parabola. Chissà, fors’anche un po’ meno inutile.

Anche Il naso, se non lo si legge attraverso l’ottica della satira sociale, diventa un esercizio di stile fine a se stesso. Sembra di essere in un film comico degli anni ’30: un barbiere avvinazzato trova un naso nel suo panino di colazione; fa di tutto per sbarazzarsene e non ci riesce. Nello stesso tempo, in un’altra casa di Pietroburgo, l’assessore di collegio Kovalev si sveglia senza naso. Quale beffa atroce, un buco in pieno volto, per una società che giudica le persone solo sulla base delle apparenze! Poco per volta, come una valanga che si espande sempre più lungo il crepaccio, l’insensatezza prende il posto della realtà borghese, pianificata e codificata: Kovalev vede entrare nella cattedrale il suo naso, vestito da funzionario di primo livello; lo rincorre, vorrebbe riporlo al suo posto; questi finge di non riconoscerlo e gli si sottrae. Trionfa il caso, l’assenza di necessità (se escludiamo la satira che colpisce chi governa, che può essere sostituito dal primo naso di passaggio…): Pirandello, poco meno di cento anni dopo, definirà l’umorismo come “sentimento del contrario”: qui Gogol ce ne dà una rappresentazione narrativa quasi circense. Nulla ha senso, nella vita: anche che il naso riappaia e, dopo essersi rifiutato di riprendere il suo posto, lo faccia una mattina senza dire niente a nessuno… Quante cose vorremmo poterci spiegare nell’esistenza, e non lo possiamo fare, per i motivi più disparati!

Quando tutto è a posto, dopo un caos del genere, c’è ben di che dubitare dell’ordine sociale prestabilito.

O no?

Quelli di Gogol sono racconti che non implicano risposte, che si limitano a suscitare interrogativi, nei rispettivi finali aperti. Vince la fantasia, perde la realtà: siamo ancora capaci di accettarlo, nei nostri tempi ipertecnologici?

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