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3-L’influenza sulla narrativa contemporanea dei romanzi veristi: Mastro don Gesualdo di Giovanni Verga (1889) e I Leoni di Sicilia di Stefania Auci (2019)

Gesualdo, nel romanzo Mastro Don Gesualdo, partecipa ad un’asta in cui i notabili del paese si confrontano per capire chi sarà il prossimo esattore delle gabella (una tassa) per tre terre comunali. Gli aristocratici non possono permettersi di aggiudicarsi quell’appalto perché non hanno liquidità, cioè denaro, sufficiente. Invece Gesualdo sì. Anche lui, come Vincenzo Florio, glielo sbatte in faccia, senza complimenti, durante l’asta pubblica, quando tutti possono vederlo e sentirlo: le monete che i nobili non hanno saputo conservare si sono trasferite nelle tasche di Gesualdo. Egli è un parvenu, un arricchito, un uomo partito dal nulla che sta diventando molto più potente di tutta l’antica società siciliana:

“I giurati si agitavano sulle loro sedie quasi avessero la colica. Il canonico Lupi si alzò di botto, e corse a dire una parola all’orecchio di don Gesualdo, passandogli un braccio al collo. ― Nossignore, ― rispose ad alta voce costui. ― Non ho di queste sciocchezze… Fo i miei interessi, e nulla più.

Nel pubblico che assisteva all’asta corse un mormorìo. Tutti gli altri concorrenti si erano tirati indietro, sgomenti, cacciando fuori tanto di lingua. Allora si alzò in piedi il baronello Rubiera, pettoruto, lisciandosi la barba scarsa, senza badare ai segni che gli faceva da lontano don Filippo, e lasciò cadere la sua offerta, coll’aria addormentata di uno che non gliene importa nulla del denaro: ― Cinque onze e sei!… Dico io!… ― Per l’amor di Dio, ― gli soffiò nelle orecchie il notaro Neri tirandolo per la falda. ― Signor barone, non facciamo pazzie!… ― Cinque onze e sei! ― replicò il baronello senza dar retta, guardando in giro trionfante. ― Cinque e quindici. Don Ninì si fece rosso, e aprì la bocca per replicare; ma il notaro gliela chiuse con la mano. Margarone stimò giunto il momento di assumere l’aria presidenziale. ― Don Gesualdo!… Qui non stiamo per scherzare!… Avrete denari… non dico di no… ma è una bella somma… per uno che sino a ieri l’altro portava i sassi sulle spalle… sia detto senza offendervi… Onestamente… Guardami quel che sono, e non quello che fui dice il proverbio… Ma il comune vuole la sua garanzia. Pensateci bene!… Sono circa cinquecento salme… Fanno… fanno… ― E si mise gli occhiali, scrivendo cifre sopra cifre. ― So quello che fanno, ― rispose ridendo mastro don Gesualdo. ― Ci ho pensato portando i sassi sulle spalle… Ah! signor don Filippo, non sapete che soddisfazione, essere arrivato sin qui, faccia a faccia con vossignoria e con tutti questi altri padroni miei, a dire ciascuno le sue ragioni, e fare il suo interesse! Don Filippo posò gli occhiali sullo scartafaccio; volse un’occhiata stupefatta ai suoi colleghi a destra e a sinistra, e tacque rimminchionito. Nella folla che pigiavasi all’uscio nacque un tafferuglio. Mastro Nunzio Motta voleva entrare a ogni costo, e andare a mettere le mani addosso al suo figliuolo che buttava così i denari. Burgio stentava a frenarlo. Margarone suonò il campanello per intimar silenzio. ― Va bene!… va benissimo!… Ma intanto la legge dice…  Come seguitava a tartagliare, quella faccia gialla di Canali gli suggerì la risposta, fingendo di soffiarsi il naso. ― Sicuro!… Chi garantisce per voi?… La legge dice… ― Mi garantisco da me, ― rispose don Gesualdo posando sulla scrivania un sacco di doppie che cavò fuori dalla cacciatora. A quel suono tutti spalancarono gli occhi. Don Filippo ammutolì. ― Signori miei!… ― strillò il barone Zacco rientrando infuriato. ― Signori miei!… guardate un po’! a che siam giunti!… ― Cinque e quindici! ― replicò don Gesualdo tirando un’altra presa. ― Offro cinque onze e quindici tarì a salma per la gabella delle terre comunali. Continuate l’asta, signor don Filippo.”

L’asta continua e il barone Rubiera cerca di portare via a Mastro don Gesualdo l’appalto. Si impegna a pagarlo moltissimo, ma Gesualdo sa che è privo di garanzie economiche e lo smaschera di fronte alla buona società.

“― L’ultima offerta per le terre del comune! A sei onze la salma!… Uno!… due!… ― Un momento, signori miei! ― interruppe don Gesualdo ― Chi garantisce quest’ultima offerta? A quell’uscita rimasero tutti a bocca aperta Don Filippo apriva e chiudeva la sua senza trovar parola. Infine rispose: ― L’offerta del barone Rubiera!… Eh? eh? ― Sissignore. Chi garantisce pel barone Rubiera? Il notaro si gettò su don Ninì che sembrava volesse fare un massacro. Peperito dimenavasi come l’avessero schiaffeggiato. Lo stesso canonico allibì. Margarone balbettava stralunato. ― Chi garantisce pel barone Rubiera?… chi garantisce?… ― A un tratto mutò tono, volgendola in burla: ― Chi garantisce pel barone Rubiera!… Ah! ah!… Oh bella! questa è grossa! ― E molti, al pari di lui, si tenevano i fianchi dalle risate. ― Sissignore, ― replicò don Gesualdo imperturbabile. ― Chi garantisce per lui? La roba è di sua madre. A quelle parole cessarono le risate, e don Filippo ricominciò a tartagliare. La gente si affollava sull’uscio come ad un teatro. Il canonico, che sembrava più pallido sotto la barba di quattro giorni, tirava il suo compagno pel vestito. Il notaro era riuscito a cacciare il baronello contro il muro, mentre costui, in mezzo al baccano, vomitava: ― Becco!… cuor contento!… redentore! ― La parola del barone! ― disse infine don Filippo. ― La parola del barone Rubiera val più delle vostre doppie!… don… don… ― Don Filippo! ― interruppe l’altro senza perdere la sua bella calma. ― Ho qui dei testimoni per metter tutto nel verbale. ― Va bene! Si metterà tutto nel verbale!… Scrivete che il baronello Rubiera ha fatto l’offerta per incarico di sua madre!… ― Benone! ― aggiunse don Gesualdo. ― Quand’è così scrivete pure che offro sei onze e quindici a salma. ― Pazzo! assassino! nemico di Dio! ― si udì gridare mastro Nunzio nella folla dell’altra sala”

La stessa scena, anche se ambientata da un notaio, si ripete in I leoni di Sicilia. Vincenzo Florio, ormai adulto e nel pieno della sua fortuna commerciale, inizia a prestare soldi a caro prezzo agli aristocratici sull’orlo della bancarotta, togliendo loro le proprietà economicamente più promettenti.

“L’uomo [il barone Mercurio Nasca di Montemaggiore] indica Vincenzo. “Non mi ha lasciato scelta…questo strozzino”. La voce è un distillato di rancore. Vincenzo sembra accorgersi di lui solo in quel momento. “Uno strozzino, io? Barone, non sono una congregazione di carità”.“Voi state approfittando del mio stato d’indigenza!” Il Barone storce la bocca. “Mi state costringendo a svendere”. “No signore, non mentite. Ho chiesto una settimana per valutare le vostre garanzie, e bene ho fatto perché ho scoperto che gli attrezzi dello stabilimento erano in condizioni pietose. Allora mi sono offerto di acquistare la vostra quota della tonnara per venirvi incontro. Per tutta risposta, voi mi avete chiesto il pagamento in contanti per tacitare i creditori. L’avete avuto. E ora avete pure il coraggio di dire che non vi ho lasciato scelta?” “Non avete sangue nobile e si vede! Siete un individuo meschino e senza rispetto!” […] Quell’insulto brucia ancora, sempre. “Potete ritirarvi, se lo credete”, mormora Vincenzo, gelido. Nella stanza, il silenzio diventa pesante, spezzato solo dal ronzio della mosca […] Lo sanno tutti e il notaio Tamajo non fa eccezione: il barone è rovinato. Ma sa pure che quell’uomo è orgoglioso come pochi.”A voi la parola Signor Barone […] cosa scegliete?” […] “Firmate, per Dio”sibila poi il barone, “Firmate e sparite dalla mia vista”. Vincenzo firma con uno svolazzo sotto la macchia d’inchiostro […] Si avvicina al barone, accasciato sulla sedia, e gli fa cadere la borsa sulle gambe. L’uomo non fa in tempo a prenderla e le monete cadono a terra, sparpagliandosi sul tappeto. Vincenzo Florio lascia la stanza mentre il barone Nasca di Montemaggiore, in ginocchio, sta raccogliendo il denaro dal pavimento.”,

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