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Storia della mafia in Italia (1860-1994). Parte 4: il secondo dopoguerra

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Grazie al padrino don Calogero Vizzini, la Mafia cercò di avvicinarsi alla Chiesa e alla sua emanazione politica più diretta: la Democrazia Cristiana, intesa come baluardo contro il comunismo e il socialismo delle campagne siciliane. Forse proprio per questo motivo la forza politica di centro riuscì a vincere le elezioni del 1948, le prime della neonata repubblica italiana, utilizzando il sostegno dei capimafia per raddoppiare, in alcune aree, il numero dei propri voti. A far le spese di questo legame tra Roma e Palermo, il bandito Salvatore Giuliano, ufficialmente ucciso nel 1950 in un conflitto a fuoco con i carabinieri ma, in realtà, ucciso da una famiglia mafiosa che si era accordata con membri dello Stato per fare ricadere sul morto la responsabilità della strage di Portella della Ginestra.

Gli anni ’50 e ’60 furono decenni in cui lo Stato ebbe interesse a dire pubblicamente che “la mafia non esiste”, nonostante suoi autorevoli esponenti, come il capitano dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa (ucciso proprio dalla Mafia a Palermo nel 1982), sostenessero il contrario e contribuissero alla cattura di pericolosi killer mafiosi (come il giovanissimo Luciano Liggio, uno dei più crudeli capimafia della storia). Tra il 1954 e il 1961 morirono i principali esponenti della mafia rurale: don Calogero Vizzini, semianalfabeta, e Francesco di Cristina. Essi furono sostituiti dalla mafia commerciale, del taglieggiamento e degli appalti, come racconta Leonardo Sciascia nel suo famoso libro Il giorno della civetta, da nuove violente figure di mafiosi: oltre a Luciano Liggio, don Gaetano Badalamenti e Stefano Bontade. Essi costituirono con i mafiosi italo americani una sorta di patto per lo scambio degli stupefacenti tra Usa e Sicilia, che sarebbe durato con grandi guadagni e pochissimi problemi sino agli anni ’80. E’ infatti dal 1958 che si inizia a parlare di “Cupola” mafiosa, il gruppo dei più importanti capimafia presieduto da un uomo d’onore più forte degli altri. Costoro elaborarono una strategia di azione comune, per favorire il voto di scambio con i partiti amici e per aumentare i loro profitti legati allo smercio di droga, al racket, agli appalti pubblici. Molto probabilmente mafioso fu l’attentato che nel 1962 fece precipitare, con una piccola carica di esplosivo, l’aereo privato di Enrico Mattei, presidente dell’Eni (ente nazionale idrocarburi). Mattei voleva infatti spuntare condizioni di vendita del petrolio molto più vantaggiose rispetto a quelle offerte all’Italia dalle sette più grandi compagnie petrolifere mondiali (le sette sorelle); per questo trattò direttamente con i paesi produttori di petrolio, scavalcandole. La sua morte fu forse causata da una richiesta esplicita di qualcuno di questi magnati, che si rivolse direttamente alla mafia americana per commissionarne l’eliminazione in Italia, senza lasciare troppe tracce.

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