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2-Luigi Pirandello. I romanzi della maturità

Pirandello, dopo aver compilato Il fu Mattia Pascal nel 1904, fece conoscere alla letteratura italiana un libro che contiene un eccesso di ragionamento, un’idea di prigionia (che Mattia sconta non potendosi davvero trasformare in Adriano Meis) che condanna le persone ad una vita tra cimitero (quello in cui si conclude l’esistenza) e biblioteche (quelle in cui si chiudono i libri). Dopo aver ottenuto la fama con questo testo, egli prosegue nella sua carriera letteraria, con diversi romanzi su soggetti diversi.

Negli anni successivi a questo romanzo, che diviene sin da subito un classico letterario, Pirandello compila ancora nel 1911 I vecchi e i giovani. Si tratta di un affresco dedicato alla Sicilia post 1870. Qui egli parla dei Fasci dei lavoratori siciliani, che chiedono migliorie del tenore di vita e dello stato sociale ma vengono delusi dal parlamento di Roma (chi ricorda il potere di Francesco Crispi?), che agisce in nome delle clientele dei latifondisti, che vogliono mantenere stabile l’ordine sociale e continuare a vivere secondo la tradizione che li vede dominatori della Sicilia. Qui l’umorismo si nota dai dialoghi, infarciti di luoghi comuni. Ciò che è un luogo comune, non è discusso, non è discutibile. Dà certezze. L’unico modo per mettere alla berlina questo modo di pensare è far crollare il senso di queste parole, renderle inutili e prive di senso effettivo. Sarà lo stesso meccanismo narrativo che, quasi cinquant’anni dopo, guiderà Giuseppe Tomasi di Lampedusa nella scrittura del romanzo Il gattopardo (1958): un libro che vuole passare al lettore questo concetto: “affinché tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. Di nuovo la tipica ironia della grande letteratura siciliana (che avrà due altri prosecutori: Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri, autore de Il commissario Montalbano).

A seguire, il romanzo successivo di Pirandello, sarà un omaggio a Grazia Deledda, narratrice sarda e premio Nobel per la Letteratura: Suo marito. E’ l’unico romanzo pirandelliano ambientato all’interno dei salotti intellettuali della capitale. Si parla di una donna, resa autrice da suo marito. Ella, dopo aver messo al mondo un figlio, uno scherzo di natura, metterà al mondo molti romanzi di grande spessore. Torna di nuovo il tema dell’arte che sovrasta la Natura (e che rende quest’opera piuttosto affine ai romanzi di D’Annunzio quali Il Piacere, Il fuoco, Forse che sì forse che no).

Penultimo romanzo, che precede il capolavoro finale di Pirandello, è Quaderni di Serafino Gubbio operatore, iniziato nel 1915 e portato a termine, dopo una grande revisione, nel 1925. Il protagonista, Serafino, è operatore di macchina da presa. Lavora dietro uno strumento che riprende il mondo per quello che è, sia nella finzione sia nella realtà. Ad un certo punto, durante un film, una tigre sbrana il protagonista che, invece di sparare all’animale, sparerà alla protagonista femminile e l’ucciderà. Qui la finzione diviene realtà, ma la visione di questa trasformazione colpisce Serafino al punto da togliergli la parola. In quest’opera Pirandello discute il rapporto uomo-macchina, capovolgendo le parole dei futuristi: se l’uomo sarà sostituito dalla macchina, produrrà prodotti senz’anima, stupidi, tutti uguali. La macchina infatti non risolve i problemi interiori dell’uomo, solo quelli esteriori. E crea confusione tra realtà e verosimiglianza.

Uno, nessuno e centomila (1926) è invece il romanzo cardine del Pirandello maturo. Vitangelo Moscarda (notare il nome: la vita di un angelo, un ossimoro) è figlio di una importante famiglia di costruttori edili. Nota per caso un’imperfezione sul suo naso. E allora si chiede: io non l’ho mai notata? No. Gli altri, l’hanno notata? Sì. Io allora mi vedevo diverso (col naso dritto) rispetto agli altri (che mi hanno sempre visto col naso storto). Dunque chi sono, io Vitangelo? Quello che pensavo di essere o quello che gli altri vedevano? I due Vitangelo non sono la stessa cosa. Dunque, “La realtà, io dico, siamo noi che ce la creiamo: ed è indispensabile che sia così. Ma guai a fermarsi in una sola realtà: essa si finisce per soffocare, per atrofizzarsi, per morire. Bisogna invece variarla, mutarla continuamente, continuamente mutare e variare la nostra illusione”. Egli inizia a non riconoscersi più e a regalare appartamenti, separandosi progressivamente dalla moglie e dagli amici, che non lo riconoscono più per quello che era. E allora la domanda “tu chi sei”? avrà un’unica risposta: uno, nessuno e centomila. Vitangelo finirà in una casa di cura psichiatrica, dove rifletterà sul suo destino, pensando (omaggio sicuramente a Leopardi) che non c’è nulla di meglio per l’uomo che diventare sasso, farsi pietra, farsi pianta. Quindi non sentire più nulla, non riflettere su nulla. Un essere vivente che si fa cosa, che sparisce. Qui abbiamo anche la manifestazione più elevata dell’Umorismo: il riso si verifica in quei momenti della vita in cui i legami logici tra le cose svaniscono. Se ci si ripensa, si vuole approfondire il motivo del proprio riso (e dunque dell’insensatezza della ragione): tolta la maschera, eliminata la forma, l’uomo è quello che è, autentico. Ma l’essere autentico fa paura agli altri, abituati a vivere e a catalogare la vita secondo rigide convenzioni di pensiero e di morale. Il riso spalanca la porta all’autenticità (pensiero che Pirandello riprende dal filosofo francese Henri Bergson, autore di un saggio dal titolo Il riso).

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